UNA RAGAZZINA DOWN E LA VECCHIAIA

Serena era una ragazzina affetta dalla sindrome Down, quando venne inserita in prima media aveva già due anni più degli altri. Non era in grado di scrivere se non il suo nome. Dimostrava spesso un’aggressività fisica notevole verso cose e persone, che l’insegnante di sostegno faticava a contenere. All’inizio degli anni Ottanta l’inserimento consisteva nell’allontanare dalla classe il “portatore di H” per iniezioni di sapere scolastico somministrati dall’insegnante di sostegno; nonostante i Decreti Delegati degli anni Settanta avessero definito come aiuto alla classe il ruolo dell’insegnante di sostegno. La scuola della cittadina della costa romagnola era dotata di una Polaroid , un apparecchio che fotografa e stampava e così decisi che si poteva impostare qualche lezione ,anche perché Serena era bravissima a fare le imitazioni. Io e lei ci disponemmo di fronte alla classe: le suggerivo all’orecchio, sottovoce, un mestiere:il parrucchiere, il barbiere, la lavandaia… e lei doveva i gesti rendere il personaggio . Un successo, i compagni e le compagne nominavano ad alta voce il mestiere recitato battendo le mani a Serena mentre un bambino la fotografava. Allestimmo un cartellone sul quale vennero incollate le foto con accanto brevi didascalie: Serena fa il barbiere, Serena fa il barista, Serena fa… Serena chiese di essere sollevata all’altezza del cartellone e sorridendo soddisfatta accarezzò una a una le foto che la ritraevano. Quel gesto raccontava e spiegava implicitamente cosa è l’identità di una persona,per una persona; Serena aveva il sentimento preconscio di una sua carente collocazione nel piccolo universo scolastico; di essere una differenza considerata perdente nella vita e lo aveva dimostrato un giorno. La sua classe sarebbe andata in gita per una giornata, ma senza di lei perché l’insegnante di sostegno aveva dichiarato in chiare lettere che senza l’accompagnamento della madre, lei non avrebbe accettato. Serena aveva comportamenti aggressivi e comunque reagiva fisicamente in modo imprevedibile e talvolta pericoloso per la sua incolumità e quella di altri. La madre si era sottratta con una scusa e Serena aveva capito che sarebbe rimasta a casa ,esclusa dal quel momento ludico collettivo e lo dimostrò a me, entrando improvvisamente nella classe dove in quel momento mi trovavo per urlarmi la sua rabbia con una domanda ossessiva e piena di dolore:” Perché loro sì e io no?”. Il vedersi ritratta sulle foto le aveva permesso una sorta di risarcimento:poteva ammirarsi e sentire il coinvolgimento degli altri ; capirsi e un po’ amarsi, forse. E’ anche questo avere un’identità percepita e addirittura consapevole. Avere una identità e poi perderla, avere una identità e perderla in parte e non avere piu’ l’età per ricostruirne un’altra cosa comporta? Continuare ad avere una identità per gli altri,pubblica,ma non sentirla vera ,autentica, completa, cosa significa? Per gli altri il proprio ruolo può restare intatto, ma non l’identità interiore, la coscienza di sé, la propria intima percezione quando viene intaccata dal lutto, straziata dalla perdita, dalla separazione finale e permanente . A quel punto l’identità si lacera irrimediabilmente e il riemergere di tracce mnestiche si rompano,si dileguano sul nascere di piacevoli, intime sensazioni o semplici percezione di vita. Il noi dei vissuti condivisi riemerge allora sanguinando e lacerando la trama dei sentimenti e delle emozioni rendendo difficili ogni integrazione nella vita del quotidiano procedere. E’ così perché manca il futuro del noi ,mentre l’io, nella solitudine, trova difficoltà a riprogrammare un futuro,perché,al massimo, può diventare realtà concreta per un attimo,nello spazio-tempo del qui e ora; troppo poco. Si chiama vecchiaia,la vecchiaia.

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