giovedì 22 marzo 2012

SUI BENI COMUNI ,SUL PAESAGGIO COME PROBLEMA ETICO

“E’ invalsa invece la pessima abitudine di chiamare ‘sviluppo’ ogni opera, pubblica o privata, che produca profitti delle imprese, anche a costo di devastare il territorio.” L’ha scritto (La Repubblica 16 mar.) un autorevole studioso come Salvatore Settis autore di un libro che ha avuto una certa risonanza: “Paesaggio costituzione cemento “ (Einaudi 2010). Si chiede anche perché questo modello di finto sviluppo ha tanta solidità da essere condiviso “da governi di ogni sorta”. E già, perché lungo la penisola si costata sempre una sorte di schizofrenia dei politici che quando governano i comuni e le regioni si danno da fare per lanciare o rilanciare lo sviluppo cementificando, e quando vanno all’opposizione si danno egualmente da fare per criticare tale modello? Secondo il professore c’è una drammatica incapacità a immaginare per il Paese un modello alternativo di sviluppo, “che vinca il muro contro muro delle opposte retoriche della ‘crescita’ e della ‘de-crescita’.” In un altro articolo (La Repubblica 21 mar.) si chiede cos’è il paesaggio. E si risponde che del paesaggio si ha una mera concezione estetica: il paesaggio come veduta, assimilabile a un quadro. Che fare? Si potrebbe favorire un cambiamento: dal paesaggio estetico (da guardare) al paesaggio etico (da vivere). Lidia Menapace ha scritto un bellissimo articolo per Il Paese delle Donne (19 mar.) per spiegare cosa sono i beni comuni di cui si fa un gran parlare da un po’ di tempo a questa parte. Ci ricorda che l’economia classica con Adamo Smith definisce beni non surrogabili e privi di valore economico in quanto infiniti, cioè non misurabili l’aria, l’acqua e la terra. Sono “beni” da porre fuori mercato e non sono oggetto di scambio. Sarebbe meglio definirli beni d’uso. Comunque, un passo importante del suo articolo è il seguente: “Possiamo chiamare beni comuni appunto l’acqua (onde le lotte per la sua pubblicizzazione), l’aria (e quindi gli impegni per evitare d’inquinarla) e la terra. Qui vi è il massimo di possibile uso interessante della nozione di ‘bene comune’, dato che sulla terra che abiti insistono tutti i tuoi diritti e molti tuoi doveri. Se la terra occupata da una popolazione è poca, non si può ridurla, decidendo d’imperio che vi si fa passare, magari un’autostrada (che inquina anche l’aria) ma nemmeno una ferrovia che riduce la terra di uso abitativo o coltivabile. “ Il nostro è un Paese ormai ampiamente inquinato e distrutto che ha avuto, già dai primi anni settanta, un importante e significativo movimento ambientalista ,fino alla nascita del partito dei Verdi. Ma quei movimenti- bisogna pur ricordarsene-, incontrarono l’ostilità (manifesta) del Pci soprattutto ai livelli locali e, ma anche l’indifferenza dei partiti dell’estrema sinistra. Perché anche la sinistra più avvertita ha contribuito a tenere ai margini la cultura ambientalista? Perché solo ora, ciò che è rimasto di quella sinistra (marxista), sembra farsi carico delle “lotte” contro l’inquinamento, eccetera? Ma anche perché la sinistra di governo (locale) si caratterizza per una palese contraddizione? Mi riferisco, come esempio recente, ai festeggiamenti in atto per il centenario di Milano Marittima che registrano la lode sperticata da parte del sindaco Piasapia per la “città giardino”. Ha ancora Ragione Settis quando annota che si deve tenere presente che “lo spietato consumo di suolo “, si accompagna a una spaventevole “perdita di qualità dell’architettura “. I famosi villini art nouveau degli inizi delle costruzioni della Società di Milano Marittima nella secolare pineta accanto a Cervia, erano immersi in ampi spazi verdi. Di quei villini resta ben poco qui e là. Mentre continuano a fiorire detestabili costruzioni mastodontiche che si mangiano il verde pinetale residuo. Chiamarla “città giardino” è soltanto il residuo linguistico di ciò che aveva progettato il pittore milanese Palanti al servizio della distorsione mentale di politici e lobbisti locali.
milano marittima, all'inizio degli anni sessanta.Ora quelle zone verdi non ci sono più.

martedì 20 marzo 2012

LA CAMPAGNA ELETTORALE A DESENZANO PER LE AMMINISTRATIVE

FOTO ESEMPIO DI QUALCHE LISTA IN LIZZA PER LE AMMINISTRATIVE.

lunedì 5 marzo 2012

UN NEUROLOGO, LA TV DI STATO E L'UCCISIONE DI TRE DONNE

“Strangola la moglie con un foulard”:è il titolo di un quotidiano riferito a un marito che ha ucciso la moglie, qualche giorno dopo la vicenda di Brescia dove un ex marito ha ucciso con una pistola la ex e il suo nuovo compagno, sua figlia di vent’anni e il relativo partner. A Piacenza, sempre per gelosia, un altro uomo ha ucciso una sudamericana. Il secondo canale della Tv alle ore 13 del 5 marzo ha invitato un illustre neurologo a spiegare i motivi di queste uccisioni ripetute, con lo stesso movente, in pochi giorni. In un bel primo piano il dottore si è dilungato in una lezione sull’aggressività umana e la sua differenza da quella degli altri mammiferi. Infine ha spiegato perché l’uomo, a causa delle gelosia, può diventare “il peggiore predatore che uccide altri uomini”. Altri uomini? Ma non sono state uccise esattamente tre donne? Che brutti scherzi fa l’uso del neutro universale! Psicologici, psicoanalisti, neurologi e psichiatri continuano a parlare in termini generici, evitando accuratamente di distinguere tra maschi e femmine. Non si è accorto, l’illustre chiamato a presentare un presunto punto di vista scientifico oggettivo, che sono state uccise, per gelosia, tre donne. In altri termini che i gli uomini non sopportano facilmente il rifiuto e la sottrazione delle compagne alla loro giurisdizione perché probabilmente genera ai livelli profondi della psiche una ferita narcisistica insopportabile. Una ferita che lede l’identità virile costruita ancora sul senso di conquista e proprietà ,questo, sì, della “preda” femmina relegata alla funzione di riproduttrice tenera e fragile. Il Corriere della Sera (5.3) ha intervistato Lea Melandri, femminista storica e scrittrice ( “Gli uomini e la violenza ‘Questa è una tragedia che li riguarda tutti’ “) sulle vicende di Brescia, Verona e Piacenza. Secondo lei si continua a vendere la solita versione che si tratta di casi patologici , ovvero di mostri. Di fronte a questi fatti ripetuti, la reazione di quasi tutti gli uomini è quella di prenderne le distanze: “Io non sono così, non ho nulla da spartire con tutto ciò. Vorrei invece vedere più coraggio, vorrei che gli intellettuali di questo paese, gli stessi uomini di cui leggo gli scritti e dei quali condivido molto spesso le idee, dicessero finalmente : tutto ciò mi riguarda. Vorrei che qualcuno alzasse la voce e dicesse: la questione del rapporto fra uomini e donne è centrale e non più rinviabile. E cominciasse a interrogarsi sull’idea di mascolinità che abbiamo costruito nei secoli, sul nostro modello di civiltà, portandone allo scoperto punti di forza e nodi critici. Noto una difficoltà, che a volte sembra insormontabile , a portare il tema della violenza sulle donne dentro un dibattito pubblico.”. Occorre, auspica la scrittrice, un lavoro culturale, educativo profondo che intacchi anche ciò che le donne hanno introiettato nei secoli , cioè l’idea dell’ “io ti salverò che le tiene prigioniere di una clima che diventa via via più pesante e drammatico..”.