lunedì 2 gennaio 2012

STORIA DI UNA DONNA NELLA POLITICA DEL NOVECENTO

Tra e me e lei ci sono tredici anni che ora sembrano pochi , ma che allora, quando l’ho conosciuta nel Movimento Femminile della D.C., mi sembravano tanti. Ho ripreso in mano, casualmente, un numero di ”Donna e società”, la rivista trimestrale del M.F. che aveva preso il posto del mensile “Donne d’Italia” e vi ho letto due titoli: “Considerazioni sul divorzio” di P.Gaiotti e “La posizione della donna nel Movimento studentesco europeo” scritto da me. Correva l’anno 1969. Scrive Romano Prodi, nella presentazione che la Gaiotti muove un rimprovero severo alla Democrazia Cristiana: quello di essere stata indifferente al processo di rinnovamento voluto dal Concilio Vaticano II che aveva aperto, nel “mondo cattolico”, un vivace e intenso dibattito anche sul tema del rapporto tra fede e partecipazione alla vita politica. Prodi scorge, nella sua lettura del libro, una grande amarezza su come sono poi andate le cose in questo Paese che, al termine della stesura delle memorie, è ancora sotto il dominio di un presidente del consiglio che fu animatore negli anni giovanili, di serate estive sulle grandi nave da crocera; facendo forse così l’esperienza dell’imbonitore per il suo futuro di politico. All’inizio, opportunamente, Paola Gaiotti scrive che un’autobiografia non può pretendere di essere del tutto esatta nella ricostruzione della memoria. Ma se scritta da una donna “può offrire l’occasione del superamento di un’altra separatezza che perdura, tanto più nella storia politica, quella fra storia delle donne e storia generale”. Ne convengo e le sono grata di questa precisazione. Le oltre duecento pagine del libro percorrono anni grandiosi dal dopoguerra al 2008, che lei ha percorso da grande e appassionata protagonista. Ci sono gli anni sessanta, quando al quotidiano cattolico nazionale, al quale collaboravo e che si stampava a Bologna, alla direzione c’era un grande giornalista come Raniero la Valle. E sono gli anni della speranza per il laicato cattolico, perché si viveva “la piena coscienza dell’appartenenza del laico al sacerdozio universale dei fedeli, nella sacralità condivisa dell’evento liturgico e insieme nella costruzione della città dell’uomo”. Per me sono gli anni della collaborazione alla rivista “Testimonianze” diretta da padre Ernesto Balducci e della partecipazione alla redazione di” Jesus Caritas“ (della “famiglia” della spiritualità di Charles De Foucauld), di cui faceva anche il piccolo fratello Carlo Carretto che aveva abbandonato la carica di presidente della Giac nel 1952 anche perché in contrasto con le scelte di destra della Dc, andandosene novizio nel deserto algerino. Giustamente Paola Gaiotti ricorda la forte capacità di elaborazione delle donne democristiane : ”Fui subito colpita dalla qualità alta dei dibattiti politici che animarono via via nel decennio gli organi del Movimento Femminile, Comitato centrale ed esecutivo, in cui erano presenti anche molte donne, giovani e spesso più giovani di me, e di grande valore“. Le sono grata di avermi citato tra quelle più giovani, dopo le sue coetanee divenute in seguito illustri come Tina Anselmi, Franca Falcucci, Lidia Menapace. D’altronde, proprio Lidia Menapace in un suo libro (La Democrazia Cristiana: natura, struttura e organizzazione, Mazzotta ed. 1974) dedica un intero capitolo al Movimento Femminile descrivendone, dal suo punto di vista, i limiti ma anche le risorse. Scrive che la prima generazione di dirigenti democristiane si dedicò all’attività politica con grande disinteresse personale, ma, tranne forse Maria Jervolino Unterricter, di formazione più laica e “l’unica che abbia parlato di emancipazione femminile”, in genere accettarono “con assoluta convinzione la funzione marginale e sussidiaria che la Chiesa assegnava alla donna, sempre vista come appendice di una “funzione” e non come soggetto umano, titolare di una propria piena sovranità personale. Dalla definizione, poco contestata, di una funzione “naturale” (quella materna e familiare, in genere) nella quale la donna sarebbe inglobata come soggetto storico e politico, discendeva addirittura la negazione dell’esistenza di una vera e propria questione femminile, che non fosse un puro e semplice processo di adeguamento di leggi, di modifica graduale di costume, di elevazione scolastuica e culturale della donna”. Purtuttavia la Menapace ricordava i corsi estivi che si tennero inizialmente alla Camilluccia a Roma per giovani, dove si affrontava “la storia del pensiero politico, la formazione dello Stato unitario, il fascismo, la resistenza, la Costituzione, i partiti, la politica internazionale e, successivamente, la programmazione economica, le regioni. Allargando dunque l’orizzonte, anche la questione della parità tra uomo e donna non poteva più essere liquidata con un elenco delle conquiste giuridiche (il voto, ecc.) dalla liberazione in poi”. Ma a proposito dell’uscita di Lidia Menapace la Gaiotti commette un errore di data. Scrive: “Già nel 1969 , del resto, vi fu un fatto che lessi come un segnale dei costi del troppo pesante condizionamento ideologico, attivo da una parte e dall’altra. Una delle più acute personalità della politica femminile di allora, sotto la spinta della contestazione studentesca – ma forse anche della delusione per una mancata candidatura alle politiche- usciva dalla DC, in cui era autorevolmente impegnata nella corrente della Base; ma lo faceva con un documento, pubblicato su “Settegiorni”, la rivista della sinistra Dc, di radicale conversione a sinistra, in nome di una “scelta anticapitalistica, scelta di classe, scelta di campo, scelta marxista”. La Gaiotti rivela che intendeva risponderle con un articolo assai critico su “Donne e società”, ma non fu possibile per l’ostilità di Franca Falcucci (Delegata Nazionale del M.F. e direttora responsabile della rivista) che ritenne più opportuno “lasciarla al suo destino”. Non seppi di questo dissidio , forse anche perché era noto il mio legame, da discepola a maestra, con Lidia Menapace. Ma era il 1968. A Roma, a due passi dal Vaticano dove abitavo in una camera in affitto, stavo scrivendo la mia relazione introduttiva al tradizionale corso nazionale di formazione per giovani dirigenti del M.F., che avevo voluto sulle tematiche aperte dalla contestazione giovanile in Italia e nel mondo. Il 5 luglio i quotidiani pubblicarono la notizia dell’uscita dalla Dc di Lidia Menapace. Un settimanale intitolò in seguito un articolo “Lo strappo maoista di Lidia Menapace”. Ero a conoscenza della sua personale crisi e c’eravamo scambiate qualche lettera sulla situazione generale della politica e in particolare del partito. Lidia era stata sospesa dal partito (faceva parte anche del consiglio nazionale) perché aveva partecipato a una tavola rotonda sulla guerra in Vietnam insieme a un comunista, senza avvertire e chiedere, secondo la prassi, il “permesso” al segretario provinciale della città dove si sarebbe svolto l’incontro. In un convegno a Parma del M.F., al quale partecipammo come relatrici sia io che la Falcucci, al termine riuscii a far votare all’unanimità un ordine del giorno di solidarietà a Lidia che, appena rientrata a Roma , inviai ai quotidiani; guadagnandomi i duri rimbrotti della delegata nazionale. Il corso di formazione nel luglio del 1968, si tenne alla Domus Mariae e, per la prima volta, la relazione d’inizio non venne assegnata a Lidia Menapace, molto amata dalle giovani per la sua modernità di stile linguistico e di pensiero. Appunto, la svolsi io alla presenza, insolita, di Franca Falcucci. Nel 1969 Lidia Menapace entrò a far parte del gruppo che era uscito dal Pci e che diede vita al gruppo del “Manifesto”. Per me si trattò di consumare prima una crisi profonda, proporzionata anche all’intensa partecipazione alle speranze aperte dal Vaticano II e ben presto sfumate. Ritornata a Cervia, presi parte alla vita di un gruppo ecclesiale di base di giovani liceali, che di lì a poco aderì quasi totalmente al Manifesto. Una di quelle giovani era Emma Fattorini, che la Gaiotti ricorda nel suo libro ai tempi della svolta del Pci tra Bologna-Bolognina e Rimini. Paola Gaiotti è stata deputata europea per la Dc, dirigente della Lega dei democratici con Ermanno Gorrieri che avevo conosciuto come dirigente regionale del M.F. in Emilia Romagna. In seguito è entrata nell’Ulivo, lasciando il partito democristiano che giudicava “irreformabile”. Incontra una Livia Turco giovane che l’ammira, incontra alcune femministe come Maria Luisa Boccia e la Buttafuoco. Ma, a mio parere, forse complice l’estraneità generazionale , sfiora appena la comprensione della vicenda femminista di quegli anni. I temi della differenza di genere, cari a Chiara Saraceno e a Lea Melandri, della differenza sessuale secondo la lettura tutta italiana della Libreria delle donne di Milano e del gruppo delle filosofe di Diotima dell’Università di Verona, ovvero nomi come Luisa Muraro e,a per un fase Adriana Cavarero, le restano abbastanza estranei. Ma sarebbero ancora oggi fondamentali per uscire dalle secche di una lettura , quella della storia politica delle donne, che non viene “mai utilizzata per leggere meglio la storia generale.”. Anche perché in quei fermenti femministi, che si potevano leggere su “Lapis”, su “Reti”, su “Effe”, sul “Paese delle Donne”, ecc. ai quali ho dato qualche contributo, erano aperti a intrecci disciplinari dalla sociologia, all’antropologia, alla psicoanalisi. Ma, per motivi storici legati all’ostilità della Chiesa, impedirono aperture necessarie e foriere di altri esiti. Una ostilità e una chiusura che probabilmente favorirono l’integralismo teologico, e poi dell’ organizzazione politica di Comunione e Liberazione. Qualcosa scrissi anch’io, nel 1978: Comunione e liberazione nella cultura della disperazione, Ottaviano editore, cercando d’ interpretare sociologicamente la secolarizzazione rispetto alle aggregazioni giovanili nella Chiesa. L’autobiografia di Paola Gaiotti è l’ultima lettura, dopo quella di Rossana Rossanda La ragazza del secolo scorso ed.Einaudi 2005 e di Luciana Castellina La scoperta del mondo ed.Feltrinelli 2011. Anche con loro due ho percorso un pezzo di strada, al giornale e nel partito. Mi piace pensare che queste narrazioni sono state possibili grazie all’elaborazione del Movimento Femminista. Come non ricordare la semplicità e la forza degli slogan: “il personale è politico”, e “partire da sé”, in altri termini cioè le emozioni, i sentimenti, ovvero il “linguaggio del corpo”; soprattutto, la consapevolezza che oltre l’io razionale c’è tutta la vastità misteriosa dell’inconscio individuale e collettivo. 02|01|12 pubblic. IL PAESE DELLE DONNE

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